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RADIOHEAD, I PIÙ GRANDI GENI MUSICALI (E DI MARKETING) DEI NOSTRI TEMPI

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Radiohead “A Moon Shaped Pool”
Con il nuovo album “A Moon Shaped Pool” i Radiohead sono riusciti a unire alla perfezione sperimentazione ed emozioni. Ascoltandolo si può avere l’impressione di un lavoro musicalmente spaventoso. Così è. A questo punto si potrebbe avere anche l’impressione di un lavoro freddo, un puro esercizio formale condotto da cinque maniaci del suono. Così non è.
Oddio, che i cinque siano maniaci del suono è vero. O forse maniaci e basta, chissà?
“Maniaco io?
Guarda che prima o poi la trovo la tua cameretta, dietro una di queste porte…
Hey, un momento: questo è probabilmente proprio ciò che avrebbe detto un maniaco!”
Il disco però non suona freddo e, anzi, sono diversi i momenti in cui i vengono i brividi sulla pelle a sentire Thom Yorke danzare con la voce sul’impressionante tappeto sonoro messo in piedi dai compagnucci. L’elettronica è meno presente rispetto all’ultimo “The King of Limbs” del 2011, così come ai dischi dello Yorke solista. Non è però nemmeno un ritorno all’indie-pop-rock di “The Bends” e “Ok Computer”. In quest’occasione è come se avessero preso le loro esperienze precedenti, le avessero frullate insieme e messe a frutto nel loro lavoro più cinematografico. Più che un album, un film. Non una merdata di Michael Bay. Un film bellissimo di Terrence Malick o del loro amichetto Paul Thomas Anderson.
“A Moon Shaped Pool” non è però solo il loro nuovo, ennesimo capolavoro musicale. I Radiohead continuano a confermarsi dei maestri assoluti anche nel marketing. Una cosa che a qualcuno può far storcere il naso, ma molti dei più grandi gruppi e artisti nella storia della musica non sarebbero altrettanto grandi senza la componente extra-musicale. Cosa sarebbero ad esempio Elvis, i Beatles, David Bowie o Michael Jackson senza la loro immagine, le loro mosse, i loro look?
I Radiohead, non potendo contare su un’immagine altrettanto d’impatto, hanno scelto una via differente per farsi notare, al di là dei loro brani. Non essendo Thom Yorke un figaccione e visto che nemmeno gli altri sembrano usciti da un catalogo di Tommy Hilfiger, si sono ingegnati in un altro modo. I Radiohead hanno compreso e sfruttato la portata del mezzo Internet più di qualunque altra band, e pure di qualsiasi altro esperto di marketing. Fin dai tempi di “Kid A” sono usciti dai mezzi di promozione tradizionale e hanno abbracciato la rete, persino Napster, all’epoca demonizzato da gruppi rimasti al paleolitico come i Metallica. Per “In Rainbows” sono poi passati all’autodistribuzione, con l’innovativo metodo pay-what-you-want e dicendo “Addio!” alle case discografiche. Il loro scopo non era tanto quello di distribuire la loro musica in maniera gratuita, quanto quello di emanciparsi dalle label. Guadagnare con la loro musica loro e solo loro, senza arricchire le case discografiche. E ci sono riusciti in pieno, vincendo una battaglia che si è rivelata molto ostica per altri grandi artisti, come Prince.
A questo giro, per lanciare il nuovo album, i Radiohead hanno scelto di sparire. “How to Disappear Completely”? No, non completamente. Solo da Internet e solo per qualche ora. Thom Yorke e compagni il primo maggio a un certo punto sono scomparsi dalla rete: il loro sito è letteralmente sbiancato, così come i loro profili sui social network. Niente immagini, niente selfie, niente post, niente commenti, niente tweet o retweet. Niente di niente. Dove sono finiti?
Il mistero aleggia nell’aria. I Radiohead sono riusciti a fare il post più chiacchierato del web degli ultimi tempi, senza fare alcun post, ma sparendo. Il silenzio può far più rumore di qualunque suono e la sparizione può dare più visibilità di qualsiasi immagine. La “scomparsa” del gruppo di Oxford è stata l’operazione di marketing dell’anno, pochi dubbi su questo. Una mossa che molti gruppi, e pure molti pubblicitari, si possono solo sognare di giorno. Daydreaming. Una mossa che fa capire come i Radiohead abbiano capito la potenza della rete, e il modo migliore per usarla, al contrario ad esempio, tanto per fare un nome a caso, degli U2, che con l’album “Songs of Innocence” (per altro mediocre) hanno invece compiuto la scelta opposta, “imponendo” la loro presenza a tutti gli utenti Apple, con una strategia di marketing invasivo che non ha certo pagato.
“Bono?
Marameo!”
Dopo questa sparizione temporanea, i Radiohead sono tornati. Puff. Ricomparsi per magia con un paio di clippini su Instagram che anticipavano il primo singolo e video del loro nuovo lavoro: “Burn the Witch”.
Un gioiellino d’animazione che omaggia il cult anni ’70 The Wicker Man. Bello, bellissimo, splendido, ma non c’è manco il tempo di metabolizzarlo che i testa di radio tirano fuori un capolavoro. Il Capolavoro. “Daydreaming”, canzone da brividi dentro un video da sogno, o se preferite da incubo, diretto da Paul Thomas The Master Anderson. Scusate se è poco.
E non è manco finita lì, perché il gruppo, insieme al video, annuncia pure che l’album completo sarebbe arrivato dopo appena un paio di giorni. Ed ecco che domenica 8 maggio, nel giorno della Festa della mamma, i Radiohead hanno dato alla luce il loro nuovo figlioletto. Un bebé che cresce bene, con gli ascolti anziché con il latte in polvere, e che regala parecchie soddisfazioni. Che bravo bambino!
In un anno ricco di delusioni, i Radiohead non l’hanno fatto. Non hanno deluso o, almeno, non mi hanno deluso e continuano a confermarsi uno dei pochi punti di riferimento saldi della mia vita. Per questo non posso fare altro che lovvarli forever.

E ora, vai di impressioni track-by-track da “A Moon Shaped Pool” by Radiohead.

“Burn the Witch” secondo alcuni è un pezzo politico anti-Donald Trump. Secondo me è più che altro il modo migliore per dire: “Ciao a tutti, siamo tornati e, se pensavate che fossimo finiti, beh, sappiamo dove vivete e vi verremo a bruciare!”.
“Daydreaming” suona come Thom Yorke che sogna di cantare con i Sigur Rós che sognano di suonare con i Radiohead. Un vero sogno a occhi aperti, con un finale inquietante degno di un incubo di David Lynch.
“Decks Dark” tiene alti i livelli di pelle d’oca e fa restare all’interno dei confini del sogno. Potrebbe persino essere considerata una specie di “No Surprises” per l’anno 2016. E sticazzi.
“Desert Island Disk” è la loro versione di una ballata country. Cosa che significa che con le tipiche ballate country c’entra quanto Donald Trump con la politica. Hey, questa per caso era una presa di posizione anti-Trump così come “Burn the Witch”?
“Ful Stop” può suonare come la colonna sonora perfetta di qualunque film e/o serie tv e/o trailer figo in uscita nei prossimi 20 anni. #ciaone proprio!
“Glass Eyes” mi sa che la uso come ninna nanna. Non la intendo come una cosa negativa. Non è un brano così noioso da far dormire. È un brano così dolce da far dormire. C’è una differenza.
“Identikit” è più ipnotica della voce del Mago Silvan. Sim sala bim.
“The Numbers” è una ballata da accendini accesi per chi odia le ballate da accendini accesi.
“Present Tense” è un pezzo dal sapore vagamente latineggiante. Ma tranquilli, perché non è una porcata alla Alvaro Soler o un brano reggaeton alla J Balvin. Forse non è nemmeno così latineggiante, giusto un cicinin.
“Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief” ha un titolo linawertmülleriano che rimanda a Tinker Tailor Soldier Spy (La spia), ma per fortuna è molto meglio del film e ha una coda finale che Morricone, levati!
“True Love Waits” è uno splendido pezzo che i Radiohead hanno nel loro repertorio live già da parecchio tempo e che ora ha finalmente trovato la sua giusta collocazione in un lavoro di studio. Il vero amore aspetta, le grandi canzoni pure.
(voto 9/10)

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